Il 25 luglio 1943 i fratelli Cervi misero insieme un bel po’ di farina, burro e formaggio e, insieme ad altre famiglie, cucinarono trecentottanta chili di pasta che portarono nella piazza del piccolo borgo emiliano di Campegine per offrirla alla popolazione. L’occasione era festeggiare, ‘con qualcosa che mangiano’, la destituzione e la caduta di Benito Mussolini. Così, nonostante i quattro mesi di ritardo, quel piatto di pasta al burro e formaggio, è diventato il più rappresentativo del 25 aprile. Non solo, perché oltre alla sua originaria semplicità, in realtà quella ricetta, già nota nel quindicesimo secolo, racchiudeva anche un significato ben più potente. Perché il piatto nazionale degli italiani non era amato dal fascismo. Anzi, nell’ipocrisia di regime, quel pasto che più si consumava a casa, in bianco o con i fagioli per i più poveri, con il ragù per i più benestanti, era nella migliore delle ipotesi, osteggiato. Secondo Alberto Grandi e Daniele Soffiati, autori del libro La cucina italiana non esiste, il regime fascista considerava la pasta un cibo meno italiano rispetto a minestre e polente, oltretutto, per essere prodotta, necessitava grandi importazioni di grano. A dar manforte poi c’era Filippo Tommaso Marinetti e il suo Manifesto della cucina futurista che, come ha scritto Eugenio Signoroni su La Gola (n. 2 del 2024): “Tra i punti che lo compongono, uno dei punti più commentati è proprio l’abolizione della pastasciutta… identificata come simbolo di un modo di nutrirsi rozzo e primitivo… e che ha come conseguenza, uno stile di vita fiacco, pessimista, inattivo e neutrale, caratteristiche che mal si adattano con l’idea di movimento, velocità e innovazione futuriste”. Da quel giorno di luglio però, la pasta tornò protagonista, in Italia e nel mondo.